L'Anello di Śakuntalā

23.09.2025

Il dramma indiano Abhijñānaśākuntalam (qui tradotto come "L'Anello di Śakuntalā") di Kālidāsa, considerato una delle opere più significative della letteratura indiana classica, ha avuto un impatto profondo e duraturo sulla cultura occidentale, soprattutto a partire dal XVIII secolo. 

La sua introduzione in Europa fu un evento fondamentale per la nascita dell'Orientalismo come movimento culturale e accademico.

La prima traduzione diretta dal testo originale in una lingua europea fu quella in inglese, realizzata dal linguista britannico Sir William Jones nel 1789. William Jones, un pioniere degli studi indologici, riconobbe immediatamente il valore artistico e letterario dell'opera. La sua traduzione, che intitolò Sacontalá, or The Fatal Ring, fu accolta con grande entusiasmo in tutta Europa.

L'impatto fu particolarmente forte in Germania. Johann Wolfgang Goethe rimase affascinato dal dramma. La sua ammirazione è testimoniata da una quartina, nella quale elogia l'opera per la sua capacità di combinare il "fiore della primavera" e "i frutti dell'autunno", unendo in sé elementi di giovinezza e maturità, natura e spirito. L'influenza di Kālidāsa si può rintracciare direttamentenel 'Prologo nel Teatro' del primo Faust, che riprende l'idea del prologo 'di scena' dello Abhijñānaśākuntalam. Ma, a mio personale avviso, è evidente anche nelle pagine del Secondo Faust, là dove il dramma di Goethe conduce i personaggi alla catarsi spirituale e celeste.

La scoperta di questo capolavoro indiano stimolò un crescente interesse per la cultura e la spiritualità dell'Oriente. Questo fenomeno, noto come Orientalismo, non fu solo uno studio accademico, ma anche un'attrazione romantica per l'esotico e il sublime. Abhijñānaśākuntalam divenne un'icona di questa nuova visione, rappresentando un mondo antico, puro e incontaminato, in contrasto con la razionalità e l'industrializzazione dell'Occidente. La sua trama, che narra l'amore tra il re Duṣyanta e la ninfa Śakuntalā, con il loro doloroso riconoscimento, risuonò profondamente con i temi romantici dell'amore idealizzato, del legame con la natura e della forza del destino.

La traduzione di William Jones, pur fondamentale, si basava su una versione del testo non completa e talvolta corrotta. La tradizione manoscritta di Abhijñānaśākuntalam era infatti molto complessa, con diverse recensioni (versioni) regionali. Questo spinse gli studiosi successivi a intraprendere un lavoro filologico più rigoroso. I contributi editoriali più significativi nei secoli XIX e XX miravano a stabilire un testo critico il più fedele possibile all'originale di Kālidāsa. Per portare a termine questo lavoro, oltre alla versione elettronica del GRETIL - Göttingen Register of Electronic Texts in Indian Languages, mi sono basato sull'edizione di Monier Monier-Williams (1853), comprendente, oltre al testo sancrito e pracrito, anche innumerevoli note preziose.

Il teatro classico indiano, spesso associato esclusivamente alla lingua sanscrita, presenta in realtà un panorama linguistico molto più ricco e complesso. L'arte drammatica trovò una sua forma classica e codificata intorno al 200 a.C. Il trattato fondamentale su tutte le arti performative, il Nāṭyaśāstra di Bharata Muni, datato tra il 200 a.C. e il 200 d.C., fornisce una guida enciclopedica che copre ogni aspetto della messa in scena, dalla musica, la mimica, il trucco e l'architettura teatrale. Questa arte, concepita come una sorta di quinto Veda, creata da Brahmā per essere accessibile a tutti, incluse donne e caste inferiori che non potevano studiare i testi sacri, si fonda su un principio di inclusività che si riflette direttamente nel suo uso delle lingue.

La coesistenza del sanscrito e del pracrito nel dramma classico non è casuale, ma risponde a una convenzione drammaturgica rigorosamente strutturata. Il sanscrito (saṃskṛta) è per definizione la lingua 'perfetta', grammaticalmente elaborata, in contrasto con il pracrito (prākṛta), che significa lingua parlata, naturale. Questa distinzione definisce anche il ruolo sociale e scenico di ciascuna lingua. Nel teatro, i personaggi di alto rango e di elevato status intellettuale, come il re, i brahmani e i saggi si esprimono in sanscrito. Al contrario, il pracrito è la lingua designata per le donne, incluse le regine, i servitori e i soldati. Questo schema non indica una mancanza di educazione da parte dei personaggi che esprimono le loro parti in pracrito, ma riflette una realtà sociolinguistica dell'epoca, in cui la fluidità in sanscrito era appannaggio di una prestigiosa minoranza colta, mentre il pracrito era il dialetto vernacolare ampiamente compreso, ma comunque soggetto ad una profonda stilizzazione linguistica.

Ad ogni modo, tutte le parti sono rigorosamente accompagnate dalla versione in sanscrito, cosa che rende possibile un lavoro come questo che sto presentando qui.

Tutti i personaggi che si esprimono in pracrito sono, ovviamente in grado di comprendere perfettamente le parti in sanscrito.

Probabilmente, la distinzione linguistica nacque per dare una caratterizzazione immediata e a stabilire le gerarchie sociali sulla scena, rendendo lo spettacolo accessibile a un pubblico misto che includeva la gente comune. Il successo e la persistenza del teatro indiano per secoli sono stati accompagnati da questa ingegnosa gestione linguistica.

Tuttavia, a parte gli studi filologici, questa distinzione linguistica non è di alcun vantaggio per il lettore europeo. Per questa ragione, non ho appesantito il testo con le parti in pracrito, con l'eccezione esemplificativa del Prologo di scena e dell'ingresso delle tre ragazze nel primo Atto (testo pracrito e trascrizione, in colore grigio).

Malgrado il suo immenso impatto culturale, la vita di Kālidāsa rimane avvolta nel mistero. Non esistono documenti storici che ne attestino con certezza la data o il luogo di nascita. La tradizione lo colloca nel IV o V secolo d.C., durante il regno di Chandragupta II della dinastia Gupta, un periodo spesso definito l'età d'oro dell'India classica. Le leggende lo descrivono come un poeta di corte, dotato di grande intelligenza e acume. Nonostante la mancanza di dati concreti, la sua figura è diventata quasi mitologica, incarnando l'archetipo del genio letterario indiano, tanto da essere spesso paragonato a William Shakespeare per la sua capacità di esplorare la natura umana e per la bellezza dei suoi versi.

Artisticamente, Kālidāsa si distingue per la sua padronanza del sanscrito e per la finissima eleganza del suo stile. Le sue opere sono celebri per la semplicità e l'efficacia dei dialoghi, la vivida descrizione della natura e la profonda penetrazione psicologica dei personaggi. Oltre a Abhijñānaśākuntalam, i suoi capolavori includono poemi epici come Raghuvamśa e Kumārasambhava, e il celebre poema lirico Meghadūta un'opera che descrive un esule che chiede a una nuvola di portare il suo messaggio d'amore all'amata lontana.

L'ispirazione di base, per questo capolavoro del teatro mondiale è, com'è noto, il racconto presente in sette capitoli del primo libro del Māhabhārata, il poema epico per eccellenza, nei quali la triste storia di Śakuntalā, sedotta e abbandonata, si inserisce nel racconto dinastico che porterà alla nascita di Bharata, predestinato ad essere il futuro Sovrano universale (cakravartin) e progenitore di tutti gli Indiani. Da questa traccia narrativa, nella quale emerge, assai meglio che nel dramma, la levatura spirituale e morale della protagonista, il genio di Kālidāsa trasfigura e reinterpreta il tutto, creando un'opera mirabile, nella quale i temi del destino, della redenzione e dell'amicizia femminile si uniscono in un paesaggio naturale ideale e sublime e in un vero e proprio rituale catartico per lo spettatore. Kālidāsa non è solo un drammaturgo e poeta. Egli è il simbolo stesso della raffinatezza e della creatività della cultura indiana.


I PERSONAGGI DEL DRAMMA


PRIMO ATTO

SECONDO ATTO

TERZO ATTO

QUARTO ATTO

QUINTO ATTO

SESTO ATTO

SETTIMO ATTO

Appendice: La storia di Śakuntalā nel Mahābhārata